LANDSCAPE: TRE ARTISTI A CONFRONTO
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LANDSCAPE: TRE ARTISTI A CONFRONTO

LANDSCAPE: TRE ARTISTI A CONFRONTO

La pittura di paesaggio arriva fino ai giorni nostri interessando ogni epoca storica: il paesaggio viene rappresentato nei vari secoli come sfondo alle vicende umane, come rappresentazione romantica della forza naturale dove l’elemento umano sparisce, come trasposizione simbolica dell’universo psichico. Lo sguardo dell’osservatore ne definisce i contorni, che assumono la forma visibile del nostro pensiero sullo spazio al fine di comprendere il mistero del mondo e della vita: un mistero che solo uno scenario magico di forme immobili nel tempo rivela. 

Parliamo di tre artisti che hanno assunto il paesaggio come tema d’elezione della loro ricerca pittorica e che abbiamo avuto il piacere di presentare in galleria in mostre personali e collettive: Sergej Glinkov, Gian Paolo Rabito, Alessandra Rovelli. 

La profondità dei paesaggi di Sergej Glinkov, siano essi frammenti di cupole luminose, che filari di pini intervallati da rovine antiche, spazi celesti offuscati da masse nuvolose che i verdi campi della Caffarella con i papaveri in primo piano, deriva dal dualismo tra densità e fluidità della materia. Il colore si concentra e si sfalda, conferendo alla rappresentazione una forza espressionista e gestuale, che prende forma nei solchi e nelle sgocciolature, nei grumi e negli schizzi, come se il paesaggio trasudasse spirito e materia. Come nota Giancarlo Savino nel testo in catalogo della mostra “Nature”, presentata alla Galleria Il Sole nel 2019: 

Ne nascono opere apparentemente semplici, quasi un abbozzo. In realtà, a osservarle con attenzione, ciascuna rivela un mondo complesso, dove tutto è giocato su equilibri sottili. Un bilanciamento mirabile tra la raffinatezza classica della tavolozza, ad esempio nella serie delle cupole, e una gestualità trasgressiva e mai banale, come negli ultimi lavori ad olio, quegli oblò da cui possiamo scorgere uno struggente passaggio di nuvole. I soggetti, che siano cupole o nuvole, corpi o paesaggi, sono solo degli spazi entro i quali agisce la tensione di un meccanismo a tre: manifestare la tecnica, negarla, razionalizzare il processo che si sta compiendo. Si direbbe che questo modo sia diventato uno stile, ma non è così. Perché ogni volta Sergej rimette in moto questo “tormento” di masse colorate, alla ricerca di armonie, misure ed equilibri, insieme alle riflessioni intorno ad essi. In un continuo rovesciamento o ripensamento fino a trovare, nella geografia dell’immaginare, un altro centro, forte e sensuale. Ed è appunto la sensualità, a mio avviso, l’esito definitivo di quasi tutte le sue opere. Una sollecitazione dei sensi che lavora sul profondo. Una lunga stimolazione intorno al soggetto. Una sorta di sottile foschia che spesso più che mostrare lascia intravedere. Un aggiungere e sottrarre che creano movimento: che si tratti di aria, acqua, fuoco o terra. Un movimento che stacca le immagini dalla bidimensionalità propria della pittura per consegnarle a una spazialità lirica che richiama il cinema di Tarkovskij “

I paesaggi raccontati da Gian Paolo Rabito, così aderenti al vero da risultare a prima vista quasi fotografici, rappresentano luoghi disabitati, privi di qualsiasi presenza umana. L’artista vuole rivelare una precisa idea di spazio, come rappresentazione di una realtà non mistificata e manipolata, segnata dal lento scorrere del tempo, un paesaggio attraversato da una luce che evidenzia ogni particolare facendolo risaltare allo sguardo dell’osservatore, che si perde in esso soffermandosi sui tetti delle abitazioni, sui cornicioni delle facciate, sui riflessi verdi del fiume. 

Potremmo definire Rabito come un paesaggista del XXI secolo, dove al posto della rappresentazione della natura, cara ai pittori dell’Ottocento, immortala squarci metropolitani, tranches de vie postindustriali. Il suo modo di dipingere, con decisi tagli prospettici e un sapiente gusto fotografico, si presenta come un dialogo tra il proprio mondo interiore e la realtà esteriore. (…) Le vedute di Rabito sono studiate nei minimi particolari, l’artista sembra concentrarsi sempre su una singola visione, non importa che sia lo scorcio di un ponte o il particolare di una camera, in entrambi i casi l’immagine si presenta nei suoi dettagli di geometriche costruzioni, in cui il soggetto assurge al ruolo di luogo privilegiato. Un altro elemento costitutivo di questo mondo evocato è l’assenza. Nelle opere di Rabito, infatti, non appaiono mai figure umane, probabilmente perché considerate dall’artista come elementi superflui e di distrazione dai propri impulsi immaginativi. Unico abitante di questi spazi assorti è ancora una volta il tempo con cui l’artista crea uno scenario fatto di echi invisibili ma palpabili. (Giorgia Calò) 

Alessandra Rovelli vive immersa nel paesaggio verde della provincia di Cremona, paesaggio che respira fin da bambina e che diventa fonte di ispirazione pittorica e luogo di esplorazione per la ricerca di nuovi mezzi espressivi. Attraverso l’utilizzo di materiali come carbone, terra, cenere, l’artista conferisce ai suoi lavori una componente tattile, una ruvidezza che caratterizza la superficie di tutte le sue tele.

La serie delle Life Box partono dal recupero di scatole comuni su cui l’artista cuce una tela, dipingendo paesaggi intrisi di poesia e lirismo che restituiscono la profondità di uno sguardo che si posa sulle tracce che l’uomo ha lasciato di sé nei luoghi che segnano il suo passaggio: lampioni, alberi, pali della corrente, case,  paesaggi notturni illuminati dal chiarore proveniente da una finestra. L’uomo, quindi, è sempre evocato ma mai presente.

All’interno delle scatole l’artista inserisce dei messaggi che non si possono leggere, ma che sono legati all’immagine dipinta, come un segreto protetto all’interno di uno scrigno.

E anche nella materia ruvida che Rovelli utilizza per raccontare la sua natura – ruvidità che negli anni si è andata ammorbidendo, ma che è rimasta nella densità del colore, nei piccoli grumi che giocano col cadere della luce – non vedo soltanto un riferimento alla terra dove è nata e dove vive, alla nebbiosa campagna lombarda, ma anche un indizio messo lì per noi, a ricordarci come tutto abbia spessori inaspettati e terze e quarte dimensioni segrete e come proprio dentro le ombre di quegli spessori a volte si celino le verità più profonde.” (…)  In una visione per certi versi animistica della natura, Rovelli ci racconta di boschi che sussurrano, che vibrano di ricordi, di pensieri e di presagi; ci spiega – spalancandoci un mondo – che i segni verticali che scandiscono lo spazio, quelli che noi leggiamo come tronchi spogli o come pali della luce, sono in realtà esperienze, dolori e prove. Ci spinge a domandarci se nel percorso dell’esistenza queste prove ci abbiano fiaccati o rafforzati e se vederle lì, una accanto all’altra, ci spaventi oppure ci dia l’esatta misura della nostra forza e della nostra capacità di reazione. E pian piano fa nascere in noi la convinzione che dentro quella scatola, nello spazio buio che noi percepiamo come vuoto, il bosco continui, nuovi cespugli inventino nuovi fruscii, oppure la strada si sviluppi in curve inaspettate e in biforcazioni dirette verso un altrove che non ci è dato vedere.” (Alessandra Redaelli)

D’altronde la stessa artista confida che i suoi paesaggi hanno una valenza simbolica:

 “Tutta la mia ricerca pittorica è improntata verso il paesaggio al quale attribuisco un significato simbolico: la strada diventa il percorso di vita, i lampioni o gli alberi possono essere persone. Mi piace raccontare di rapporti umani, di emozioni, di ricordi. (…) “Il colore è dato a pennellate piene, corpose, molto compatte e ne risulta una materia pittorica ruvida che vuole dare una visione animistica della natura, che vuole raccontare delle storie e, questo senso della narrazione, lo suggerisco anche nei titoli che spesso accompagnano l’osservatore nell’interpretazione dell’opera. La scelta di lavorare su un supporto tridimensionale e decisamente impattante, come lo sono le scatole, ha un significato concettuale,  infatti spingo lo spettatore a riflettere su ciò che c’è dietro alle cose, su quello che c’è dentro l’opera. E lo faccio anche scrivendo un pensiero, una frase su un foglio di carta che poi inserisco all’interno della scatola e che, non essendo accessibile, ne rimarrà racchiuso e custodito.”

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